Mese: settembre 2013

Il suicidio e la sua scia

Il suicidio rappresenta il tentativo di liberarsi da sentimenti di vergogna , impotenza, angoscia, vuoto da cui ci si sente aggrediti,  attaccati. Si prova una sensazione che è paragonabile al subire una violenza  fisica , cioè ci si sente violentati mentalmente da emozioni  che si possono provare a causa di  cicostanze  dolorose della vita che si stanno attraversando, vissuti insopportabili per intensità e forza..

Un’altra dimensione cruciale del suicidio è quella corporea, infatti il suicidio esprime la fantasia di togliere di mezzo quel corpo che non ci piace, che viviamo come ingombrante , non adeguato, un peso dal quale vorremo liberarci .

L’aspetto impulsivo e la rabbia che nasconde costituiscono  la spinta finale , ciò quel fattore che in determinate circostanze porta l’individuo “a levare la mano su di sé”, a passare all’atto, portando a compimento la fantasia di suicidio.

L’azione del togliersi la vita sembra diventare ad un certo punto l’unica via di uscita per scaricare una tensione ed una sofferenza emotiva che non trova parole adeguate per essere espressa nè un pensiero per essere rappresentata.

Il suicidio diventa quindi un grido di disperazione rivolto al mondo interno ed esterno.

Nella maggior parte degli studi sul  suicidio si  concentra l’ attenzione sulla persona che compie il comportamento suicidario  e rimane poco indagata  la scia di colpa, vergogna, impotenza , rabbia che lascia dietro presso i familiari, i parenti e  gli amici.

Una scia che rimarrà sospesa per parecchio tempo se non vengono prese delle misure per riparare il vuoto della perdita,una nebulosa confusa di sentimenti  che genera un ombra di oscurità nella vita delle persone sopravissute, queste ultime infatti  spesso  finiscono per sentirsi involontariamente “costrette” a provare  su di sé quei sentimenti distruttivi  che  la persona che si è suicidata ha lasciato in circolo, questo vissuto che oltrepassa l’angoscia e il vuoto rimane sospeso  e inesprimibile anche per anni e a volte si spinge al di là di una singola vita  trasmettendosi in eredità   alla generazione successiva  che se ne deve fare a sua volta carico.

La ragione risiede nel fatto che i  sentimenti più forti che proviamo , l’amore e l’odio , se non vengono elaborati e contenuti in maniera opportuna, non hanno dei limiti temporali e spaziali nelle profondità della mente  e di conseguenza non sono ostacolati dalla morte, dalla fine dell’esistenza  ma  proseguono la loro espansione senza fine superando  le difese emotive, sia nella direzione dell’annientamento che verso la costruzione  ( . “ una forza che continua ad operare anche dopo… aver distrutto l’esistenza, il tempo e lo spazio” Bion , 1965)

Per questo motivo le nostre emozioni hanno bisogno, soprattutto quando vengono messe a dura prova o in scacco  le nostre capacità di contenimento, di uno spazio dove essere riversate, venire  ricevute , accolte  e di un tempo necessario  per essere  comprese.

Un luogo dove rianimare le capacità di riparazione , dove far risorgere la speranza , cioè tutte quelle  pulsioni costruttive che, come insegnano diversi testi spirituali (ad esempio Il cantico dei Cantici ), sono egualmente capaci su un piano mentale di superare la morte, la fine e ogni limite terreno .e materiale

Purtroppo questo spazio, lo spazio offerto dalla psicoterapia e dalla psicoanalisi, è al giorno d’oggi frequentemente sottovalutato e svalutato a vantaggio di una cultura che tende a privilegiare interventi farmacologici oppure cure a  breve termine  con il risultato che sempre più assistiamo allo smarrimento e al  disorientamento delle persone che sono alla ricerca  di un aiuto psicologico quando si trovano ad affrontare l’elaborazione di un lutto.

Il viaggio della terapia: perdersi e ritovarsi trasformati

La terapia  psicodinamica procede attraverso approssimazioni, digressioni, discordanze e  deviazioni : è un percorso imperfetto che ricalca le diverse traettorie  imprecise che costellano la  vita di ciascun individuo.

A differenza di altre terapie, che possono essere definite “correttive” o standardizzate, non è impostata strategicamente per portare la persona che pazientemente le si affida a qualcosa che è già chiaro e definito dall’inizio ( anche se questa cosa rassicura poco chi si trova all’inizio di un viaggio terapeutico).

L’avvio di una  trasformazione richiede  ingredienti  che non sono  mai gli stessi e   tempi  di cottura diversi ( le metafore culinarie come ci ricorda lo psicoanalista Antonino Ferro sono spesso calzanti per definire l’unicità e la singolarità di ogni menu – terapia).

Quello che vale per tutti è che bisogna immergersi  ( e farsi  anche sommergere per un tratto del viaggio )  in una marea di sentimenti  sotterranei   che vorremmo  nascondere  ( odio, invidia, avidità, rabbia, gelosia, colpa, disperazione, noia, falsità,frustrazione, inutilità, persecutori età , possessività, vuoto ma anche amore…  ) e che preferiremmo non riconoscere  in noi stessi (utilizzo il noi perché questo è un processo reciproco e riguarda sia il paziente che il terapeuta, per quanto quest’ultimo possa essere analizzato).

In un certo senso questa fase può essere simile ad una traversata del deserto biblica ,  al mal di mare provato  in mezzo all’oceano, al sentirsi  infangato  in una palude, al volare dentro una tempesta, al sentire la terra tremare    ( ogni persona possiede un ricchissimo  repertorio di immagini simboliche   che emergono  dall’ inconscio per descrivere questo momento del percorso terapeutico ) e viene avvertita a livello psicosomatico attraverso vissuti di  frammentazione, di dispersione, di crollo, vertigine , peso , di nausea..

Si tratta del momento più difficile della terapia : si può sentire di non riuscire a tollerare a reggere il peso e il caos delle emozioni , di stare dentro a qualcosa di più grande  che non si è in grado né di  gestire , né di guidare e temiamo di perdere l’orientamento, di stare ancora più male, ma è indispensabile lasciarsi andare al flusso della terapia ( come dentro un branco di pesci o ad uno stormo di uccelli ), avere fiducia, per correre il rischio di perdersi per poi ritrovare l’orientamento e scoprirsi trasformati.

E’ in questa fase che è diventa forte la tentazione di ridurre lo spazio che la terapia ha nella propria vita , se non la si è abbandonata prima .

Aspetti negletti, ripudiati vengono a galla , acquistano spazio , dignità di esistere , diritto ad  essere visti, soppesati: è in questa fase che l’individuo sofferente si  accorge della  vastità dei suoi bisogni e  la necessità di desiderare e come questa esigenza sia connessa al suo non essere mai stato visto, guardato e quindi accettato così com’è  ( con effetti diversi se ciò è avvenuto all’inizio della vita, durante l’infanzia o in adolescenza)

Ma ad un certo punto  accade qualcosa :  le persone  cominciano ad osservare  che qualcosa è cambiato , quasi “ magicamente”  (in apparenza)  , che non si è più uguali a prima, che le tessere del puzzle cominciano a ricomporsi,  una sensazione di pienezza interiore ci conquista , un sentirsi diversi, cambiati anche di poco e spesso gli altri , chi ci sta accanto o  intorno, sono i primi che riscontrano delle differenze in noi senza  che   ce ne rendiamo ancora conto ( e qui si dovrebbe aprire una serie di rimandi al ruolo dell’integrazione, dell’ ”oggetto buono , del gioco , del legame e del perdonare.. ma dilungheremmo).

Se abbiamo la costanza di proseguire il viaggio terapeutico potremmo scoprire che  vari punti della vita e del mondo sono probabilmente legati da un filo invisibile e come quando si rimane a  contemplare la fitta trama che compone la trapunta della volta celeste sopra di noi ci sorprenderemo a trovare  che ogni episodio e persona dell’esistenza è legato e  possiede uno suo caratteristico  splendore.

Di fronte al nichilismo contemporaneo, al senso di esaurimento di molti ideali credo che i viaggi intrapresi con la psicoterapia e la psicoanalisi possano offrire qualcosa che  non è  molto, ma  non è  affatto banale nè scontato e  può avere un valore non solo per gli individui nella stanza di terapia, ma anche a livello sociale per  fornire un rimedio  allo smarrimento diffuso, al sentimento di sconforto collettivo e al vuoto provato di fronte all’assenza di significato e consegnare un prezioso orientamento esistenziale alle persone.